Le vicende del Nagorno Karabakh, o meglio dell’Artsakh, sono figlie dell’attitutine dei vecchi e nuovi imperi di utilizzare le “minoranze etniche” per destabilizzare paesi vicini o consolidare acquisizioni territoriali.
La storia dell’Artsakh è più vicina di quanto si pensi a quella dell’Europa. Già provincia romana nel 250 A.C. diede i natali all’imperatore Leone V. Dal I secolo fu cristianizzata e successivamente subì invasioni arabe, mongole, tartare e turche prima di passare nel 1813 all’Impero Russo.
La fine della Prima Guerra Mondiale sconvolge gli equilibri mondiali ed europei, gli imperi centrali hanno perso e sono molte le micce lasciate più o meno sotterrate dai trattati di pace. Nei Balcani, come nel Caucaso.
Il complesso rapporto tra russi e turchi diventa un fattore geostrategico e Stalin, l’allora commissario dei soviet alle nazionalità, suggella il riconoscimento della neonata Repubblica di Ataturk cedendo il Nagorno Karabakh (abitato per quasi il 98% da armeni) all’Azerbaijan invece quasi interamente musulmano. Con la dissoluzione dell’URSS la miccia torna ad accendersi. Gli armeni della regione votano per l’indipendenza con un referendum boicottato dagli abitanti azeri. I separatisti sostenuti da Yerevan assumono il controllo e scoppia una guerra che causerà 30.000 morti e migliaia di sfollati. Da allora il Nagorno-Karabakh si definisce uno stato indipendente col nome di Repubblica dell’Artsakh, la cui capitale è Stepanakert, ma che non è riconosciuto a livello internazionale e che neanche l’Armenia riconosce per paura di ripercussioni. Nel 1994 si giunge ad un fragile cessate il fuoco grazie alla mediazione di russi, francesi e americani del Gruppo di Minsk, a cui però non è mai seguito nessun progresso nei negoziati di pace portati avanti dall’Osce.
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L’antica amicizia-inimicizia tra Russia e Turchia si proietta nuovamente sulla regione. I turchi in appoggio a Baku con uomini e armi (fornendo in particolare droni Bayraktar), i russi in veste di missione peace keeping. L’Azerbaijan, forte della propria crescita militare figlia dei giacimenti di gas e petrolio nel Mar Caspio, nel 2020 (dopo la guerra lampo del 2016) ha ripreso i combattimenti. Il corridoio di Lachin, che collega l’Armenia all’Artsakh è bloccato dagli azeri da dicembre 2022: ambulanze, convogli umanitari, cibo. Circa 120 mila armeni vivono in condizioni critiche. I peacekeeper russi continuano a ignorare la situazione anche in questi giorni nei quali, dopo i copiosi bombardamenti di Baku nel Nagorno-Karabakh, si è raggiunto un cessate il fuoco che sa però di resa. L’intesa raggiunta prevede infatti il completo disarmo e la smobilitazione delle forze dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh.
Alla finestra l’Europa guarda timida, anche se qualche tentativo è stato fatto in questi mesi in termini di negoziati. Pesa la dipendenza dal gas e dal petrolio azero ma questa situazione, che rischia di non essere risolutiva per nessuno, potrebbe aprire spazi di manovra e diplomazia permettendo alla UE di incunearsi tra Russia e Turchia accrescendo il proprio peso nella regione e impostando le basi per una futura e giusta pace.
In tutto questo gli armeni, nostri fratelli, soffrono oggi come allora le manovre di Nazioni che giocano sulla pelle dei popoli. I khachkar, le pietre tombali finemente incise con croci e intrecci in stile celtico di cui l’intera Armenia è disseminata, ci parlano di una storia e di un destino comune. Nel segno della libertà e della lotta.