Damasco, 22 set – L’arte della guerra non è un arte statica, l’evoluzione ne è il tratto caratteristico e il dinamismo delle vicende belliche è una costante immancabile di ogni conflitto, specie nell’era contemporanea. Per Sun Tzu, teorico della materia, “la strategia è l’arte del paradosso” e in questi ultimi anni la Siria è diventata, suo malgrado, il simbolo di strategie e paradossi. Alle prime fasi della cosiddetta “crisi siriana” oggi si va ad aggiungere un nuovo capitolo nel gioco strategico mediorientale fatto di interventi più mirati e circoscritti a zone d’interesse chiare su diversi settori dello scacchiere.
Alla generale opposizione d’interessi Usa-Russia legata all’eventuale dopo Assad, ed alla influenza sulla Siria mediterranea si è aggiunta nei recenti incontri diplomatici internazionali ed in molte interviste, la polemica sulla proposta di no fly zone lanciata dal segretario Usa Kerry che ha affermato in un incontro con il ministro degli esteri russo Lavrov la sua intenzione di “trattenere a terra gli aerei di Damasco” un provvedimento che di fatto azzererebbe la superiorità aerea russo siriana, limando ogni tipo di vantaggio tattico tra forze di sicurezza e terroristi forti da sempre del supporto, celato o meno, delle potenze regionali anti siriane, Arabia Saudita, Turchia e Quatar in primis. Proposta “non attuabile” per Lavrov che però tiene aperto il dialogo per un ripristino della tregua, spezzata “per errore” dal bombardamento Usa su Deir ez Zor costato la vita a oltre sessanta soldati siriani “scambiati per terroristi”. La cittadina e la base aerea hanno subito il bombardamento seguito a ruota dalla “fortunata” avanzata dell’Isis che ha conquistato posizioni forte dello sconvolgimento creato dall‘azione aerea americana.
Nel nord della Siria i turchi, rotti gli indugi del post golpe, hanno avviato una decisa ma circoscritta operazione definita “Scudo dell’Eufrate” teoricamente volta a sanificare la zona siriana a ridosso del confine nazionale ma decisamente orientata a spezzare la continuità territoriale e scongiurare la creazione di una qualsiasi compagine curdo-siriana a ridosso della Turchia. L’ostilità dei turchi ai progetti di stratificazione nazionale curda è cosa nota tanto che ora l’operazione anti Kurdistan sembra vada in netto contrasto con l’azione americana tanto che Wall Street Journal ha scritto che la “spinta turca a sud della sua frontiera mette in pericolo le forze americane”, che addestrano e affiancano i curdi, mentre Brett McGurk, inviato speciale del Presidente degli Stati Uniti, ha espresso le sue preoccupazioni dichiarando che l’amministrazione usa trova : ”Questi scontri – in aree in cui non si trova l’ISIL – inaccettabili e una fonte di profonda preoccupazione” e che “gli Stati Uniti sono attivamente impegnati per facilitare la fine delle ostilità e concentrare l’attenzione contro l’ISIL, che rimane una minaccia letale e diffusa”. Sembra che addirittura ad Ankara considerino la “questione curda” così prioritaria da chiedere un assenso di massima a Damasco che ora può concentrarsi meglio sulla liberazione di Aleppo mentre i turchi hanno ammassato al confine 55.000 uomini divisi in 3 brigate corazzate, 3 brigate di fanteria, 2 brigate di unità d’artiglieria per operazioni speciali, ed una brigata di aviazione con 110 elicotteri.
Nel frattempo si allarga la frattura che contrappone, non solo ovviamente per mere questioni di dottrina, la repubblica islamica d’Iran alle monarchie teocratiche del golfo che hanno nell’Arabia Saudita il player principale e che si gioca da tempo coinvolgendo anche le entità “affiliate” come il partito di Dio, l’Hezbollah libanese, impegnato in una vasta azione, oltre i confini storici d’intervento, contro i terroristi in Siria e in appoggio dei patrioti Yemeniti. Proprio in Yemen sembra che invece l’azione unilaterale saudita si sia impantanata nonostante l’utilizzo sconsiderato dei bombardamenti aerei e l’impiego di contractors e consiglieri militari americani e israeliani. C’è pero dissonanza di visioni sui numerosi cessate il fuoco indetti, spesso imposti, dalla Russia in Siria da parte iraniana che preferirebbe fermare la demolizione del paese manu militari arginando la marea terrorista sul campo dove impiega già parte delle forze Al Quds e della Guardia della Rivoluzione più unità delle brigate afgane Fatemiyoun e delle brigate Zainebiyoun composite da miliziani sciiti pakistani ed hazara, ed i volontari iracheni in una forza stimata tra i 7000 e i 10000 uomini di cui 1000 solo ad Aleppo. In una recente intervista il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha ricordato come la Siria non sia un “paese ponte” tra Iran e Libano ma sia una nazione fulcro degli equilibri regionali e per la resistenza patriottica palestinese e libanese.
Intanto sul Golan occupato, Israele ha invece aumentato la pressione sulle posizioni siriane con bombardamenti d’artiglieria e raid aerei a danno dei soldati di Damasco che intanto nella zona si contendono il territorio con le formazioni ribelli e terroristiche di cui si è sospettato Israele si servisse per destabilizzare la zona. La popolazione drusa della regione è insorta intanto contro l’azione israeliana ed in supporto delle istituzioni siriane confermando l’appoggio dei Drusi al governo Assad e alla lotta al terrorismo. Tutte queste tensioni interessano aree ben delimitate della Siria dove si sono condensati i gangli tattici dell’azione militare e diplomatica legata alla “ristrutturazione” geopolitica del nostro vicino oriente. Il “caos creativo” amato dalla candidata alla casa bianca Hilary Clinton recentemente inchiodata dal rivale Trump sulla questione della stabilità globale di cui la signora, da segretario agli esteri degli Usa, non si è mai erta a paladina, anzi. Ma, come in un quadro impressionista di cui solo da una certa distanza si riesce a comprendere l’immagine, anche per la Siria, e tutto ciò che le ruota attorno, va cercata l’analisi globale. Intanto si deve tenere presente che la crisi siriana non è solamente la crisi di una nazione ma è un capitolo di un sommovimento più generale di una intera regione geopolitica che parte dalla crociata in Usa in Afghanistan, passa per la demolizione dell’entità statale irachena, ha sponda nell’isolamento costante in cui viene tenuto l’Iran, con buona pace del moderato Rohani, e trova nella cosiddetta “primavera siriana” la sua attuale espressione. Sia altresì chiaro, che i confini a cui noi siamo abituati a far fede, quelli per intenderci disegnati a tavolino con l’accordo Sykes-Picot, tra Regno Unito e Francia, atto a definire le rispettive sfere di influenza nel Medio Oriente post Ottomano, hanno per le realtà politiche regionali, siano esse stati o partiti-stato, valore diverso e relativo. Quadro ancora più chiaro se si considera che il progetto di “ristrutturazione” globale di cui da anni – dal 11 settembre 2001- ammiriamo le fasi intermedie è un progetto a lunghissimo termine che ha come meta, a quanto ci è dato vedere, il portare lo scacco proprio all’Iran nemico ultimo di Usa e associati. A tal proposito sembra che gli Usa abbiano intenzione di ridisegnare la Siria tagliando via pero il territorio ad est del fiume Eufrate creando uno stato piattaforma versione 2.0 del Sunnistan proposto mesi fa per trovare anche all’Isis una nazione, da usare come base per lo scacco finale all’Iran una pedina al centro della scacchiera puntata alla tempia di Teheran in cui il vento delle riforme sembra ormai cessato infrantosi nel pantano siriano insieme alle promesse americane.
Alberto Palladino
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