L’ Afghanistan non è un paese qualsiasi. Gli antichi sovrani lo consideravano il centro del mondo. Il celebre poeta Mohammed Iqballo descrisse come il cuore dell’Asia, mentre Lord Curzon, primo viceré dell’India all’inizio del XX secolo, lo chiamò il cockpitasiatico. Per l’Afghanistan è proprio la geografia a decidere la storia, la politica e la natura di un popolo. Si trova al crocevia tra l’Iran, il Mare Arabico e l’India, e tra l’Asia centrale e quella meridionale. Valicare i passi delle sue montagne è sentita come una necessità fin dalle grandi migrazioni delle popolazioni ariane di 6.000 anni fa. Qui fiorirono le religioni più antiche: Zoroastrismo, Manicheismo e Buddismo. Nel 329 a.C., Alessandro Magno invase l’Afghanistan e lo conquistò per accedere al Khyber Pass, valicarlo e invadere le fertili pianure dell’India. I territori afghani furono il punto d’incontro e il campo di battaglia, prima dell’espansione islamica verso l’Asia centrale al tempo del Profeta, poi dei grandi imperi persiani e turchi. L’Afghanistan fu attraversato nel 1219 da Gengis Khan con le sue orde che dilagarono fino ai confini della Cristianità. Fu poi la volta di Tamerlano, che creò un vasto impero attraverso la Russia e la Persia, con capitale Samarcanda. Marco Polo e i mercanti che percorsero l’antica Via della Seta dall’Occidente fino alla Cina, dovettero necessariamente valicare i monti afghani. L’Afghanistan è crocevia e campo di battaglia nel corso di tutta la storia dell’uomo. Tutte le popolazioni che lo invasero o lo saccheggiarono lasciarono quelle tracce del loro passaggio che oggi si ritrovano nella composizione etnica del paese.
Fu oggetto di mire espansionistiche da parte di molte potenze globali sin dall’Ottocento, quando se ne contesero il controllo Russia e Gran Bretagna, delineandone poi gli attuali confini. I motivi di interesse sono strategici ed economici. Oltre ad essere il centro dell’Asia, confina, con le ex repubbliche sovietiche (quindi una sorta di “porta di accesso” per la Russia al medio oriente) e con il Pakistan (da cui si accede al subcontinente indiano). È il centro nevralgico del mondo nella produzione di oppio che negli anni ha sfiorato il 98% della produzione globale di questo stupefacente e sicuramente ad oggi continua a deternerne il primato.
Il ritiro degli USA, già in qualche modo calcolato negli ultimi dieci anni dalle amministrazioni di Washington per ragioni sia geostrategiche che interne, è stato deciso e praticamente messo in atto, ad esclusione del disastroso epilogo, dal presidente Trump e dettagliato dalla firma finale degli Accordi di Doha nel 2020. Un sospiro di sollievo per Russia, Cina e stati limitrofi ma che ben presto potrebbe trasformarsi in un’apnea soffocante. Gli accordi sono stati fortemente caldeggiati dalla Turchia e ospitati non a caso dal principale alleato strategico e finanziatore di quest’ultima: il Qatar. Il paese del Golfo, in forte contrasto con l’Arabia Saudita (anche se ultimamente le relazioni sembrano stabilizzarsi), già principale finanziatore delle mire di Ankara attraverso la Fratellanza Musulmana in alcune delle attuali “proxy war” (principalmente Siria e Libia ma non solo), che ha ospitato negli ultimi anni parte della dirigenza talebana afghana. Proprio riguardo gli accordi di Doha, bisogna ribadire che gli USA, già consapevoli della debolezza intrinseca del loro governo fantoccio di Kabul, non hanno mai permesso la partecipazione di quest’ultimo alle trattative, chiara premonizione dei fatti recentemente accaduti. I punti dell’accordo, esclusi i protocolli segreti, prevedevano infatti il ritiro delle truppe straniere nel 2021 e la “rottura” dei rapporti dei talebani con il network qaedista. Specificatamente quindi, l’allora governo di Kabul, venne messo in condizione di prendere esclusivamente atto dell’accordo, essendogli stata negata di fatto una vera e concordata resistenza politica o transizione effettiva di potere. Le vicende di questi ultimi giorni sono quindi diretta conseguenza di questo accordo tra USA e talebani, ad esclusione della gestione disastrosa da parte di Washington, forse più una spia dello stato di debolezza/inefficienza della nuova amministrazione americana, comunque un segnale tutto dentro la politica interna statunitense, che evidentemente ha forti conflitti intestini manifestati però con la pessima figuraccia davanti a tutti gli spettatori mondiali. Non certamente una nuova Saigon (periodi, contesti e conflitti del tutto differenti) se non nelle immagini (chissà quanto improvvisate) e con un significato politico ben preciso: “quando ci ritiriamo è il caos”.
Il vero colpo mortale alla Repubblica islamica dell’Afghanistan è stato dato dal suo stesso protettore: gli Stati Uniti. Come già abbiamo detto, l’esclusione dagli accordi di Doha ha lasciato in maniera calcolata libero spazio ai talebani, forse nella consapevolezza che anche quest’ultimi hanno ben poche possibilità di tenere unito e stabile il Paese, questo per via della forte disarticolazione politica a causa di una società profondamente lottizzata sulle varie anime etnico-tribali-religiose. Proprio questa lottizzazione non ha permesso il processo negoziale intra-afghano tra i talebani e il fronte repubblicano, impedito anche dalle ingerenze estere dei paesi confinanti e delle potenze regionali e continentali. Washington stessa, comunque, non ha agevolato questo processo di transizione intra-afghano, di fatto spaccando ulteriormente il fronte repubblicano e permettendo, già prima del ritiro, il formarsi di una nuova resistenza nazionale intorno alla rispolverata sigla dell’Alleanza del Nord, punto di convergenza anche degli interessi britannici e francesi, così come già visto in tanti altri conflitti recenti ancora in corso, secondo la logica delle “proxy war”, con l’uso dei “ribelli democratici”.
Detto in poche parole gli USA non hanno mai dato credito, non che gli interessasse, al governo fantoccio da loro stessi costruito su dinamiche tribali-clientelari, men che mai al momento del ritiro, minando di fatto il futuro dell’Afghanistan con una endemica instabilità politica che può sfociare, all’occorrenza, in guerra civile e destabilizzare tutta la regione. Infatti, nella politica interna del Paese hanno sempre avuto un ruolo predominante i famosi Signori della guerra, di appartenenze tribali etniche e religiose. Tra questi Ismail Khan, il “Leone di Herat”, già ex combattente contro i sovietici con i suoi compagni tagiki dell’Afghanistan occidentale e tra i principali comandanti dell’Alleanza del Nord contro gli stessi talebani, membro del partito Jamiat-e Islami e signore padrone dell’ovest. Pur avendo chiamato i suoi uomini a raccolta per contrastare l’ultima avanzata talebana si è poi arreso senza praticamente combattere. Dopo alcuni giorni di arresti domiciliari si è materializzato in Iran, a Mashad, dove già in passato ebbe supporto da parte del governo iraniano in funzione anti-talebana. Abdul Rashid Dostum, già generale dell’esercito nazionale afghano (filo-sovietico), da sempre a capo della comunità uzbeka-afghana, comandante dell’Alleanza del Nord è stato invece molto tempo in Turchia durante il primo governo talebano e poi vicepresidente del nuovo Afghanistan dopo l’invasione USA. Uomo da sempre considerato vicino ai russi (e poi anche ai cinesi), ha lasciato l’Afghanistan smobilitando da Mazar-i-Sharif, durante l’ultima offensiva talebana, con migliaia di suoi miliziani. Oggi si trova in Uzbekistan, molto più vicino a Mosca.
Considerare gli stessi talebani come una struttura monolitica è del tutto fuorviante. Anche se l’acume politico del gruppo si è evoluto nel corso degli anni, la storia dei conflitti interni tra le varie fazioni dell’organizzazione potrebbe rendere il nuovo governo insostenibile a lungo termine. I talebani hanno già proclamato l’Emirato islamico dell’Afghanistan ma il futuro rimane comunque incerto, anche per loro. In precedenza, infatti, tutte le lotte interne avvenivano per ragioni economiche o per rancori tra le varie fazioni e Hezb-e-Islami, la fazione politica che ha combattuto contro l’invasione sovietica negli anni ’80. Dalla morte del leader carismatico, il mullah Omar, c’è stata molta indisciplina e confusione tra le fila talebane. Nel 2015, la nomina di Mullah Mansour è stata ignorata da molti alti leader talebani, che lo accusavano di aver fuorviato il gruppo sulle proprie e personali ambizioni politiche e di aver tenuto segreta la morte del Mullah Omar per quasi due anni. Il frettoloso processo di successione è stato disapprovato e ha messo a dura prova l’unità del gruppo. Il mullah Mansour, partecipò poi ai colloqui di pace sostenuti dall’ISI (intelligence pakistana), causa di una veemente opposizione da parte di altre fazioni interne che generò sempre più caos, fino alla morte prematura dello stesso mullah per un attacco di droni USA nel 2016. Il Consiglio supremo dei talebani nominò allora, come successore del mullah Mansour, Haibatullah Akhundzada, l’attuale Emiro de facto dell’Afghanistan, studioso di religione ed ex giudice di un tribunale di applicazione della sharia, ma con limitate capacità politiche e di combattimento. Una scelta piuttosto insolita ma discreta per assicurare il riallineamento di tutto il gruppo. Al fine di rafforzare il raggio d’azione del movimento, Akhundzada, nominò Hammad Abbas Stanikzai come capo dell’Ufficio politico di Doha e Abdul Ghani Baradar, già co-fondatore degli stessi talebani, come futuro presidente afghano. Hammad Abbas Stanikzai, cresciuto nell’Accademia militare indiana di Dehradun, ha combattuto contro i sovietici nelle fila dei gruppi islamici come Harakat-i-Inqilab-i-Islami e Tanzim-e Dahwat-e Islami-ye Afghanistan, organizzazioni supportate da USA, Pakistan e paesi del Golfo proprio in funzione anti-sovietica.
Abdul Ghani Baradar, uno dei pochi capi talebani di origine arabe (irachene) e cognato del Mullah Omar, ha trascorso dieci anni in una prigione pakistana, è ritenuto molto vicino se non addirittura pesantemente compromesso, con i servizi pakistani anche da molte stesse fazioni talebane, non proprio una garanzia sulla stabilità interna. Detenuto a Guantanamo, fu rilasciato dagli stessi USA nel 2018 per i negoziati di Doha. Nella galassia talebana, tra le organizzazioni affiliate più importanti, vi è sicuramente la rete Haqqani, essenziale per il controllo della regione afghana della Paktia come anche delle aree tribali pakistane. Fondata dal mullah Jalaluddin Haqqani, tra i leader della resistenza anti-sovietica, più propriamente detta Miran Shah Shura (Consiglio di Miran Shah), la rete Haqqani fa parte della Shura di Peshawar (Pakistan) uno dei due maggiori centri di potere del movimento talebano insieme alla Shura di Quetta (Pakistan). Pur facendo parte del movimento talebano, la rete Haqqani, ha radici storiche e matrici ideologiche diverse dai talebani, più propense al panislamismo di matrice qaedista (Jalaluddin Haqqani fu sodale di Osama Bin Laden) e con molti donatori e sostenitori economici nei paesi del Golfo ma con un unico grande protettore: l’ISI, i servizi pakistani. L’importanza della rete all’interno della organizzazione talebana è testimoniata dal ruolo di Sirajuddin Haqqani, figlio di Jalaluddin, attualmente numero due dell’intero movimento, preceduto solo dal leader supremo Haibatullah Akhundzada, l’Emiro.
In Afghanistan, si sono storicamente sempre scontrate le geo-strategie dei grandi Imperi, con una caratteristica comune nel tempo: lo scontro tra le potenze di carattere continentale/terrestre con le superpotenze marittime. Nell’ ‘800, il “grande gioco” visse sul contrasto tra Impero russo e britannico mutato solo nella forma, ma non nella sostanza, durante la Guerra Fredda e la politica dei blocchi mondiali, tra Unione Sovietica e Stati Uniti. Tra le conseguenze, l’invasione dell’Armata Rossa nel 1979, la cui sconfitta ebbe ripercussioni disastrose non solo dal punto di vista estero ma soprattutto interno, sfaldando di fatto il meccanismo statuale partito-esercito a Mosca e accelerando, ormai è analisi certa, il disfacimento del potere sovietico. I “grandi attori” impegnati nello scenario afghano hanno da sempre manovrato leve, direttamente o indirettamente, come le potenze regionali/confinanti. Con queste ultime da sempre sponsor delle fazioni etnico-tribali e religiose che compongono il mosaico afghano. Durante l’invasione sovietica, Washington attraverso il suo allora principale alleato nell’area, il Pakistan, poi potenza nucleare, permise la formazione sul tassello etnico dei pashtun (maggioranza etnica in Afghanistan e secondo gruppo etnico in Pakistan) delle scuole di indottrinamento religioso di matrice fondamentalista, sponsorizzate e/o comunque finanziate dall’Arabia Saudita (nuovo gendarme USA nella regione in sostituzione dell’Iran dello Scià ormai decaduto).
I sauditi integrarono e potenziarono il codice religioso di onore/cultura indigena, il “pashtunwali”, con l’islam wahabita come “arma geopolitica”, ma con una caratteristica più etnico-tribale che panislamica. Questo processo di “de-secolarizzazione” delle masse musulmane fu caratteristico delle politiche di Washington in tutta l’area a partire dagli anni ’80 del secolo scorso sulla matrice saudita-wahabita, in contrasto, non solo in Afghanistan, ai partiti/movimenti marxisti-leninisti o socialisti-nazionali affiliati all’Unione Sovietica, ma fu anche di contenimento della Rivoluzione islamica in Iran. Il disimpegno USA apre quindi nuovi scenari di instabilità politica, che dall’Afghanistan possono squilibrare l’area in un grande domino che può coinvolgere l’esistenza stessa di alcuni stati regionali confinanti con esso. Il Pakistan è tra questi stati sicuramente il più coinvolto, visto che è stato da sempre il principale sostenitore, attraverso i suoi apparati militari e di intelligence, del fenomeno talebano. Questo strettissimo rapporto non è avvenuto solo per ragioni di affiliazione etnico-tribale (i pashtun) ma soprattutto per scopi geopolitici, anche se attualmente ad esempio il governo pakistano non ha ancora riconosciuto il nuovo governo talebano di Kabul. Infatti come dicevamo, anche se Islamabad ha da sempre sostenuto i talebani nel quadro di una strategia regionale che vedeva l’Afghanistan come linea estrema di difesa in caso di conflitto esteso e sfortunato con l’arci-nemico indiano, deve fare i conti con una intrinseca debolezza interna che passa anche per la proliferazione dei talebani di casa (Tehrik-i-Taliban). Non solo, Islamabad, ormai tra gli alleati strategici di Pechino, potrebbe di qui a poco essere ulteriormente indebolita dai nuovi flussi di profughi afghani (già ne ha ospitati in passato 3 milioni) che si riverserebbero sui suoi confini.
Come se non bastasse, i talebani di Kabul, starebbero già negoziando con l’India, dietro consiglio di Washington che a Nuova Delhi ha un nuovo alleato in funzione anti-cinese. I talebani hanno infatti archiviato il problema del Kashmir, come interno e bilaterale tra India e Pakistan, girando quindi le spalle, almeno in parte a quest’ultimo che ha sempre più paura… come quella di un maestro superato dagli allievi. Anche un altro potente vicino, l’Iran, ha una influenza ed un occhio sempre ben aperto sulle dinamiche afghane per due motivi principali. Il primo, dovuto all’influenza storica soprattutto nelle regioni occidentali come Herat (dove non a caso stazionavano gli italiani…), ma anche a livello linguistico (il pashtu è una lingua iranica appartenente alle lingue indoeuropee e anche il dari, conosciuto come farsi orientale), culturale e religioso (gli sciiti sono circa il 15% della popolazione afghana con importanti minoranze come gli hazara). Il secondo motivo è dovuto invece a questioni geopolitiche. Infatti, la politica attuale dell’Iran che comunque in passato ha contrastato i talebani (il generale Soleimani della Forza Quds diede appoggio più di una volta a Massoud) per poi riavvicinarsi a fasi alterne vista anche la presenza militare USA, è oggi di dialogo diplomatico, per scongiurare l’instabilità che graverebbe parecchio sia in termini politici-economici che sociali sull’Iran stesso. Anche l’Iran ha comunque timore del flusso di profughi e del traffico dell’oppio, di cui l’Afghanistan è il maggiore produttore mondiale, flusso che passa inevitabilmente dall’Iran per poi raggiungere i mercati occidentali. Inoltre, la già non tanto celata antipatia tra Teheran e talebani potrebbe acuire le tensioni (e i massacri) contro la minoranza sciita già perseguitata in passato (uccisione di 8 diplomatici iraniani a Mazar-i-Sharif e di migliaia di hazara nel 1998).
L’Iran, quindi, ha già in atto con i talebani rapporti diplomatici per scongiurare il caos ed evitare che degeneri in guerra civile, secondo anche il modello di conflitto sciiti-sunniti foraggiato praticamente in tutto il medio oriente da altre potenze regionali (Arabia Saudita) con la regia di USA e Israele. La Turchia, invece, è stata tra “nuovi” attori in Afghanistan, parte della popolazione infatti è di origine o lingua turcomanna (tra questi gli uzbeki ad esempio) come quella del vicino Xinjiang cinese (gli Uiguri). Ankara ha agevolato e sponsorizzato l’accordo di Doha e ha preso sempre più ruolo tra i paesi che hanno mire politiche sull’ Afghanistan, questo per tutta una serie di ragioni. La politica neo-ottomana di Erdogan non dispiace a Washington neanche in Afghanistan, il più grande esercito NATO dopo gli USA potrebbe essere legittimato a rimanere a Kabul e guardare da vicino i talebani, cosa che vorrebbe lo stesso Erdogan. Il ritorno turco in Asia Centrale, terra della sua mitopoietica, comporterebbe una vicinanza di interessi alla Cina, anche nell’affaire uiguro (come contraltare stesso alla presenza di questi ultimi tra le file dei terroristi ad Idlib in Siria), alla Russia e all’India. La mossa di Erdogan sarebbe utile anche alla gestione dei flussi migratori (da utilizzare poi come arma politica contro l’Europa) e chissà pure per quali altri traffici verso l’Occidente, tra cui sicuramente quello degli idrocarburi attraverso la costruzione del gasdotto transcaspico (TCP) passante per il Turkmenistan, l’Azerbaigian e la Turchia stessa, che diventerebbe così uno dei più grandi hub energetici verso l’Europa sud-orientale. Russia, India e Cina sono le potenze che sicuramente hanno maggiori interessi, anche per via della vicinanza, in Afghanistan.
Mosca per ovvie ragioni conosce molto bene l’Afghanistan, non a caso il suo approccio attuale è molto cauto, dato che le antipatie reciproche non si sono mai assopite. Per Mosca infatti, oltre alla grande soddisfazione per il fallimento della ventennale operazione militare degli USA e della NATO, c’è anche preoccupazione per la conseguente instabilità regionale. Quindi il Cremlino da un lato vuole svolgere un ruolo sempre più influente nelle relazioni bilaterali con i talebani che ufficialmente sono designati da Mosca ancora come organizzazione terroristica, dall’altro sta effettuando grandissime esercitazioni militari trilaterali, con Uzbekistan e Tagikistan, ai confini. La Russia ha altresì molta attenzione per la grandissima ricchezza mineraria (ferro, rame, cobalto, oro e metalli preziosi) presente in Afghanistan, in qualche modo scoperta dai russi stessi, e per le vie di trasporto degli idrocarburi sia verso l’Europa che verso l’Oceano Indiano. In passato la stessa Unione Sovietica, durante l’invasione dell’Afghanistan, non lesinò nella costruzione di grande infrastrutture e nella prospezione del sottosuolo. Risorse e vie strategiche che non possono essere lasciate in appalto solo a Pechino o ad altri player. Proprio il ministro degli esteri cinese Wang Yi è stato il primo ad accogliere una delegazione talebana, la Cina ha grandissimi interessi in Afghanistan e in generale in Asia Centrale, con grandissimi investimenti infrastrutturali che passano attraverso l’espansione del corridoio economico Cina-Pakistan (CPEC) all’Afghanistan stesso, inserendo quest’ultimo di fatto nella nuova via per la seta. Il CPEC è stato lanciato già nel 2013 nell’ambito di Belt and Road e prevede una fitta rete di strade, gasdotti, oleodotti, reti in fibra ottica e un grandissimo porto (Gwadar) ancora in costruzione in Pakistan, per collegare i due versanti dell’Eurasia e dare a Pechino una base navale per la sua flotta nell’Oceano Indiano, alle spalle dell’India e vicina ai grandi snodi di traffico marittimo (Golfo Oman/Golfo Persico). La Repubblica popolare cinese è quindi interessata alla stabilità in Afghanistan sia per ragioni economiche che interne per il controllo dello Xinjiang ed evitare una ulteriore proliferazione islamista tra gli Uiguri. Anche l’India ha ultimamente sempre più rafforzato il dialogo con i talebani, principalmente con le fazioni più “nazionaliste”, già in sede delle vecchie trattative intra-afghane tra questi ultimi e l’ex governo di Kabul.
La volontà di Nuova Delhi di relazionarsi con i talebani deriva in gran parte dalla preoccupazione per una potenziale ripresa dei gruppi militanti anti-indiani presenti in Afghanistan, tra cui Lashkar-e Taiba (LeT), Jaish-e-Mohammed (JeM) e Al Qaeda nel subcontinente indiano (AQIS) che comunque hanno sede in Pakistan sotto l’ombrello di protezione dei servizi d’intelligence pakistani (ISI) e la rete Haqqani che sostiene i gruppi separatisti anti-indiani nel Kashmir. Come contraltare i servizi indiani, supportati da Washington, foraggiano l’Esercito di liberazione del Belucistan (una regione comprendente l’Iran sud-orientale, il Pakistan sud-occidentale e una piccola fetta dell’Afghanistan meridionale) in chiave anti-pakistana (i baluci in Pakistan sono circa 60 milioni su 220 milioni di abitanti) ma soprattutto anti-cinese. Proprio alcuni giorni fa infatti, un attentato suicida dell’Esercito di liberazione del Belucistan ha ucciso 9 ingegneri cinesi impegnati nella costruzione del porto strategico di Gwadar che sorge nella regione del Belucistan pakistano. Gli stessi indiani, in contrapposizione a questo importante porto strategico sino-pakistano, stanno impegnando ingenti risorse per lo sviluppo del porto di Chabahar in Iran. Il Belucistan, con la crescente instabilità afghana che acuirà anche le tensioni tra India e Cina/Pakistan sarà sicuramente nel prossimo futuro una zona molto calda. Per gli indiani, oltre i motivi di sicurezza nazionale l’importanza della stabilità in Afghanistan è legata a interessi economici, Nuova Delhi ha già avviato oltre cento progetti nel territorio afghano per un valore di 80 milioni di dollari. Da parte loro i talebani relazionandosi con attori regionali quali l’India potrebbero guadagnare rilevanza internazionale e gli indiani, intessendo relazioni con il nuovo Emirato di Kabul, porrebbero un freno alla grande influenza su quest’ultima di Cina e Pakistan con i quali Nuova Delhi ha relazioni molto tese.
Etnicamente è un popolo molto diviso al suo interno, e le diverse etnie non si sono mai amalgamate. Questo dato di fatto ha sempre fatto in modo che ingerenze straniere e disordini interni non trovassero mai una soluzione di pace o una conciliazione nazionale. In Afghanistan la popolazione raggruppa stirpi sia iraniche (indoeuropee), sia mongole e turche (c’erano anche piccoli gruppi di semiti, ossia ebrei e arabi). La maggioranza è data dalle prime, tra cui soprattutto i pashtun, i tagichi, i baluci; al secondo gruppo appartengono gli uzbechi, i turkmeni, i kirghizi, mentre un discorso a parte meritano i nuristani e gli hazara in quanto costituiscono un’isola particolare nel mosaico di popoli che è l’Afghanistan. Gli hazara in sono l’unico gruppo sciita in un contesto sunnita e tale peculiarità è dovuta al fatto che si convertirono all’Islam in un momento in cui l’Afghanistan era sotto l’influenza dei persiani sciiti. Per quanto riguarda i nuristani, invece, o kafiri, non hanno alcun legame con le altre popolazioni dell’area e i loro elementi caratteristici hanno portato alcuni studiosi europei a sostenere due secoli fa che essi fossero i diretti discendenti di Alessandro Magno. L’eterogeneità etnica è indubbiamente seguita dalla molteplicità linguistica, la quale però più facilmente può essere compresa attraverso le due lingue principali: queste sono appunto il pashto e il dari. Secondo le stime del governo americano, il pashto è parlato dal 35% della popolazione, mentre il dari/farsi da circa il 50%. La percentuale rimanente parla lingue d’origine turca ( turckmeno e uzbeko, 11%) e altri piccoli idiomi (baluchi, nuristano, ecc).
La complessità territoriale, etnica, linguistica e religiosa del paese, rende difficile l’attraversamento di quest’area geografica; ha permesso però alle popolazioni autoctone di mantenere maggiormente immutato il proprio aspetto etnico ed i propri codici sociali, mantenendosi isolate dalle zone circostanti. Proprio la capacità di far perdurare le caratteristiche sociali, dai piccoli ai grandi villaggi, è ancora oggi una peculiarità intrinseca dell’Afghanistan. Stabilità e la funzionalità, insieme alla sicurezza, sono gli obiettivi che uno stato contemporaneo cerca di costruirsi sia all’interno che all’esterno dei propri confini. Il fatto che la realtà afghana sia una realtà eterogenea non è però la sola causa della difficoltà nel mantenere un consenso interno che permetterebbe di controllare e garantire la stabilità al paese: le variabili internazionali (dalle potenze colonialiste, agli stati confinanti con il paese stesso) hanno avuto sempre un ruolo determinante nella stabilità ed instabilità, fomentando divisioni e rivendicazioni.
Il comandante Massoud, “il leone del Panjshir”, aveva ottenuto questa fama tanto per i suoi meriti personali (era molto abile nel compiere azioni di guerriglia) quanto perché era l’uomo giusto al posto giusto. Giovane, capace, pronto a sostenere le tradizioni islamiche ma educato in Occidente, con un forte seguito tra gli uomini del suo gruppo di ribelli, con uno spiccato senso di relazioni pubbliche, con una buona conoscenza delle lingue straniere che gli permetteva di entrare in contatto con i corrispondenti stranieri. Tutto questo non sarebbe bastato a Massoud se egli non si fosse trovato, anche e soprattutto, nel posto giusto: la valle del Panjshir.
Questa regione ha una collocazione strategica che ne rende il controllo cruciale. Essa è situata infatti a poche centinaia di km da Kabul, sulla strada principale di collegamento con Peshawar, cioè con il Pakistan e le zone dove più numerosi erano i rifugiati e i mujaheddin. Qui dunque erano destinati inevitabilmente a svolgersi scontri tre le forze governative (e le truppe sovietiche) e gli oppositori al regime.
M.Barry dopo la morte di A.S. Massoud scrisse questa lettera che bene fa comprendere lo spessore di questo eroe nazionale:
“La tua morte scava un abisso vertiginoso sotto i nostri piedi, privando noi tutti di un appoggio vitale sull’orlo di una crisi mondiale. Io volevo a tutti i costi evitare di cadere nel culto della personalità, e ridurre la lotta di un intero popolo alla tua sola immagine. Durante tutto il periodo della resistenza contro i sovietici dal 1979 al 1989, mentre già qualcuno dei miei amici impegnati nelle azioni umanitarie ti raggiungeva nelle tue valli del nord-est, io continuavo ad andare in soccorso delle regioni dell’est, del sud, del centro, per testimoniare l’agonia collettiva e l’eroismo di una nazione in nome della giustizia e del diritto. Tuttavia, un giorno dopo l’altro, scoprivo il tuo acume strategico, le imboscate che tendevi ai convogli sovietici lungo tutto l’asse stradale tra Kabul e la frontiera del nord, ma anche l’amore che i tuoi uomini nutrivano per te, l’abnegazione dei tuoi combattenti, e soprattutto la tua umanità nei confronti dei prigionieri, governativi o russi che fossero. La reputazione di cui godevi mi ha infine scosso. Ti ho raggiunto con le mie squadre umanitarie di emergenza nel 1992, nel momento della liberazione di Kabul, quando i tuoi combattenti, e non gli islamisti vassalli del Pakistan, entravano per primi nella capitale. Euforia di breve durata. Abbiamo vissuto e sofferto insieme l’assedio che ne è immediatamente seguito, la fame, il diluvio di fuoco delle forze integraliste che accerchiavano e soffocavano Kabul, abbiamo ripetutamente sfiorato la morte sotto gli stessi razzi sibilanti. E’ stato là che ti ho conosciuto, apprezzato, e finalmente capito. Perchè è stato in quei momenti che ti ho incontrato di continuo, per organizzare tra le macerie la distribuzione dei viveri e delle medicine. […] Senza mai disonorare la tua fede, senza mai rinunciare a un momento di devozione e preghiera, facevi della tua spiritualità una fonte di coraggio e di tenacia, ma mai di odio. Era stato per reazione alle ingiustizie sociali che regnavano nel tuo paese negli anni Sessanta che ti eri rivolto, in gioventù, verso l’Islam. Ne avevi così riscoperto l’essenza fatta di misticismo, tolleranza, sufismo; meditavi sulla filosofia medievale di Al-Ghazali. Lo so per certo. Sotto la maschera della religione, i tuoi nemici volevano abbatterti per annientare un Afghanistan ormai lobotomizzato, in modo da trasformare la tua patria in un covo mafioso di terroristi internazionali e la tua civiltà in una farsa sanguinaria. Tu l’hai capito. Ti sei opposto. Ed è per questo che sei morto.
[…] In quelle notti, a Kabul, al riparo dalle cannonate dei talebani, alla luce delle lampade a petrolio, noi parlavamo di poesia: la nostra vera passione comune, da cui ci distoglieva, durante il giorno, il dolore che ci circondava. “La cosa che amo di più è leggere”, dicevi. Nel corso della nostra ultima cena, quando sei venuto in aprile qui a Parigi, hai interrotto di colpo le nostre considerazioni politiche per chiedere a bruciapelo quale poeta francese mi procurasse quella stessa emozione che tu provavi davanti ai versi persiani di Hafez. Ti risposi che io cercavo ispirazione nelle poesie di Mallarmé per meglio tradurre in francese i poeti della tua lingua. “Questa non è una risposta, sii più preciso!” Il tuo sguardo, lama di luce ardente quando impartivi ordini alle tue truppe, si illuminò di un sorriso.
[…] L’altro giorno quando ho saputo, e ho dovuto mettermi a sedere, mi è tornato alla mente di colpo un verso nella mia lingua natale. Dove sei ora ne comprenderai il significato: “Goodnight sweet prince, and flights of angels sing thee to thy rest”. Perché anche tu, se te ne avessero lasciato il tempo, avresti potuto diventare come un re per la tua patria”
Per quel che riguarda i Talebani, il loro movimento emerse dalle madrase (scuole religiose islamiche) dei campi profughi afghani nel Pakistan nel 1994. Due anni dopo, il movimento prese i controllo nella maggior parte del paese, eliminando ogni altro tipo di potere, rimasto solo nella zona a nord est dell’Afghanistan. Molti leader talebani trovarono il loro seguito anche nelle aree più tribali (pashtun) del Pakistan e da quel momento cominciò a crescere il numero dei talebani pakistani al fianco dei talebani afghani. Tuttavia, il movimento talebano non è mai stato ideologicamente omogeneo, in quanto al suo interno si trovano elementi “concilianti” per quanto riguarda negoziati e trattati. I talebani “stranieri” erano considerati i più radicali e i più vicini ai gruppi di Al Quaeda. Dei talebani afghani hanno fatto sempre parte anche degli individui non ideologici, combattenti più “opportunisti” motivati da incentivi finanziari e necessità tribali. Alcuni comandanti semi-autonomi, detti “neotalebani”, sono emersi come una nuova generazione di soggetti politici; mantengono un’indipendenza operativa molto significativa rispetto ai maggiori leader talebani pakistani, ma ottengono da essi una guida strategica e/o ordini e assistenza nel portare a termine alcuni attacchi. Diversamente da quanto avveniva per Al Quaeda, i talebani agiscono su territorio nazionale e su una piccola estensione di territorio frontaliero con il Pakistan. Nonostante abbiano ricevuto finanziamenti da parte dei militanti di Al Quaeda e da alcuni donatori privati del Golfo e di altri paesi, la maggior parte dei loro fondi deriva dagli stanziamenti della gente del luogo, provenienti dalla riscossione dalle moschee, da uomini d’affari simpatizzanti, da partiti radicali religiosi (in Pakistan) e dal sistema di tassazione, compreso quello applicato al traffico di oppio.
I fattori basilari per comprendere l’espansione della coltivazione del papavero da oppio sono essenzialmente i seguenti: la mancanza di un governo centrale effettivo per un periodo prolungato di tempo; il degrado dell’agricoltura e delle più importanti infrastrutture economiche causato dagli anni di guerra; l’accettazione dell’economia dell’oppio come strategia di sussistenza per molti proprietari terrieri. Durante l’invasione sovietica prima e la guerra civile poi, si crearono le condizioni per le quali interi settori dell’economia e della società civile furono snaturati. In molte parti del paese, coltivare l’oppio divenne l’unica forma di sostentamento per le comunità rurali. Anche il commerci
o di prodotti venne intaccato in quanto, oltre alle armi e al contrabbando, l’unica merce commerciabile divenne l’oppio.
I talebani concessero ai contadini afghani un’autorizzazione religiosa a coltivare tutto l’oppio che volessero, sebbene il Corano vietasse ai musulmani di produrre o consumare sostanze stupefacenti. Abdul Rashid, capo dell’unità di controllo antidroga di Kandahar, spiegò ad Ahmed Rashid la natura del suo particolare lavoro: era autorizzato a imporre il divieto assoluto di coltivare l’hashish consumato da afghani e musulmani. Tuttavia l’oppio veniva permesso perché consumato dagli infedeli in Occidente e non da musulmani o afghani. Esistevano altri motivi politici per lasciare che la coltivazione di oppio si sviluppasse: “Lasciamo che la gente coltivi i papaveri perché i contadin
i guadagnano bene. Non possiamo spingere le persone a coltivare il grano, perché, se vietassimo di coltivare i papaveri, si rivolterebbero contro i talebani. Così lasciamo crescere i papaveri e importiamo il grano dal Pakistan”.
Il governatore Mohammed Hassan giustificava questa curiosa politica in termini diversi: “Le droghe sono un male e noi vorremmo sostituire i papaveri con un’altra coltura redditizia, ma per il momento non è possibile perché non siamo riconosciuti a livello internazionale”.Nel corso dei due anni successivi, il mullah Omar avrebbe periodicamente offerto agli Stati Uniti e all’ONU di scambiare la fine della coltivazione dell’oppio con il riconoscimento internazionale dei talebani: era la prima volta che un movimento in grado di controllare il novanta per cento di un paese offriva alla comunità internazionale un’opzione del genere.
I talebani si resero conto rapidamente della necessità di formalizzare l’economia della droga per incentivare le entrate. Conquistata Kandahar, dichiararono che avrebbero eliminato tutte le droghe e questo passo incoraggiò i diplomatici americani a prendere immediatamente contatti con loro. Tuttavia, nel giro di pochi mesi, compresero di avere bisogno delle entrate provenienti dai papaveri e che avrebbero creato malcontento tra i contadini se ne avessero proibito la coltivazione. Così cominciarono a esigere la zakat, il 2,5% del reddito dei contadini, ma i talebani non si fecero scrupoli nell’esigere fino al 20% del valore di un camion pieno di oppio. In più, singoli comandanti e governatori imposero proprie tasse per riempire i forzieri e nutrire i soldati. Alcuni diventarono grandi trafficanti d’oppio oppure utilizzarono i propri parenti come intermediari.
Nel 1997, quando il controllo politico dei talebani si estese fino a Kabul e più a nord, la produzione afghana di oppio aumentò di un impressionante venticinque per cento, raggiungendo le 2.800 tonnellate. Le decine di migliaia di rifugiati pashtun, che arrivavano nelle aree controllate dai talebani dal Pakistan, adattarono le loro terre alla coltura meno impegnativa e più redditizia.
Secondo l’Undcp i contadini ricevevano meno dell’uno per cento dei profitti complessivi generati dal commercio dell’oppio, un altro 2.5 % restava nelle mani dei trafficanti afghani e pakistani, mentre il 5% veniva speso nei paesi attraverso i quali l’eroina transitava per arrivare in Occidente. Il resto dei profitti finiva a trafficanti e distributori in Europa e negli Stati Uniti. Nonostante questa bassa percentuale di profitto, si stima per difetto che circa un milione di contadini afghani guadagnasse più di 100 milioni di dollari all’anno grazie alla coltivazione di papaveri. I talebani incassavano almeno 20 milioni di dollari in tasse e ancora di più sottobanco.
Nel 1997 l’Undcp e gli Stati Uniti stimano che il 96% dell’eroina afghana proveniva dalle zone controllate dai talebani. Questi ultimi non ampliarono soltanto l’area disponibile per la produzione dell’oppio: le loro conquiste permisero anche una grande espansione del commercio e dei trasporti. Diverse volte al mese, convogli di jeep Toyota cariche di armi lasciavano la provincia di Helmand, dove veniva prodotto circa il 50% dell’oppio afghano, per un viaggio lungo e incerto. Alcuni convogli si dirigevano a sud, verso i deserti del Baluchistan e i porti della costa del Makran, in Pakistan; altri entravano nell’Iran occidentale, rasentando Teheran e continuando il viaggio in direzione della Turchia orientale; altri ancora andavano a nord-ovest, verso Herat e il Turkmenistan. Nel 1997 i trafficanti cominciarono a esportare l’oppio su aerei da carico che partivano da Kandahar e Jalalabad diretti a porti del Golfo come Abu Dhabi e Sharjah.
Nel luglio 2000, la pressione dell’Onu parve dare i suoi frutti. Prima dell’inizio della stagione autunnale (in cui vengono piantati i papaveri), il mullah Omar annunciò il divieto totale della coltivazione dell’oppio. Nonostante questo bando, le autorità occidentali iniziarono a rendere noto che i talebani non compivano abbastanza sforzi per impossessarsi delle scorte o per arrestare il traffico.Alcuni funzionari occidentali e afghani conclusero che il bando del papavero era l’atto definitivo del commercio interno. Secondo questa teoria, i talebani credevano di ricavare milioni di dollari in aiuti internazionali a seguito della decisione ben vista dalla comunità internazionale di vietare la coltivazione di oppio. La Narcotics Control Board dell’Onu concluse che dopo gli ultimi quattro anni di grandi raccolti, le scorte di eroina afghana erano abbastanza numerose da rifornire il mercato europeo per altri quattro anni.
CONCLUSIONI
A seguito del ritiro delle truppe occidentali dall’Afghanistan, i talebani hanno rioccupato il territorio nazionale in tempo record, non incontrando ostacoli se non nella valle del Panjshir dove il figlio dell’eroe Massoud sta organizzando la resistenza nazionale.
Il ritiro USA è in ultima analisi frutto di dinamiche politiche interne, che a prescindere dalle amministrazioni presidenziali, privilegiano il “disimpegno appaltato” propedeutico a quella “strategia del caos” già così a lungo sperimentata e in atto in altre parti del Mondo (Libia, Iraq, Siria). Strategia imperniata sull’instabilità politica, economica, sociale atta ad indebolire anche gli attori intervenuti per cercare di contrastarla. Nel caso specifico dell’Afghanistan, indebolirebbe tutti i paesi vicini (Pakistan, Iran) e a lungo andare potrebbe trasformarsi in un pantano per la Cina stessa, principale potenza economica con interessi geostrategici di primo livello in Afghanistan, ma addirittura avrebbe risonanza anche in Europa (acuendo il ruolo della Turchia anche e soprattutto con il problema dei profughi). Se non bastasse il ritiro, ci penserà la stessa genetica etnico-tribale dell’Afghanistan ad alimentare il caos, se pure questa non sarà sufficiente, una nuova guerra per procura, nella quale ogni attore in campo rispolvererebbe il proprio “Signore della guerra”, molti dei quali oggi in naftalina. Un ritiro, non proprio una ritirata.
In tutto il paese stanno cominciando a muoversi delle sommosse locali a difesa della bandiera afghana, che i talebani stanno ammainando per sostituirla con quella rappresentativa del proprio potere.
I talebani dichiarano di seguire una nuova linea più “moderata” e “tollerante” rispetto al passato, ma le evidenze di questi giorni smentiscono fortemente queste affermazioni (cominciano a contarsi i morti e i trattamenti inumani).
Ada Oppedisano
Giovanni Feola